Il caffè e la sua patria originaria ha creato discussioni due città italiane: si tratta di Napoli e Trieste, che si contendono lo scettro di patria dell’espresso italiano. Ma a parer personale, senza ombra di dubbio è napoletano…
Non perché si coltiva sulle colline del Vomero come i friarielli, né ai piedi Vesuvio come il pomodoro del Piennolo.
Il caffè è napoletano per elezione, estrazione volendo restare in tema.
Partenopeo per approccio: flemmatico, contemplativo, indolente.
Il caffè non è una bevanda, è più un rito laico.
Piccole parentesi, assenze fisiologiche e giustificate in un caos rassicurante.
Ha la sua ritualità, l’acqua va bevuta prima sennò: “Che vo pigliate a ffà?“
L’attesa dello zucchero che si abbandona per diventare altro.
Chi, come me, lo prende amaro abbrevia i tempi.
Non si dovrebbe mai dare fretta al caffè. Né nella preparazione né nella fruizione.
Rilassatezza, perché il caffè se ne accorge se siete di cattivo umore e sarà senza dubbio una ciofeca e poi sarete quindici minuti buoni a ricercare invano la causa: la miscela, il, barista distratto, la mancia che non avete lasciato la volta precedente.
Il caffè non nasce napoletano, ma lo è sempre stato!
Non fatevi fottere dall’amico che vi dice “Ti porto in un bar che so solo io”, il caffè non si nasconde: sale da moke col manico squagliato, profuma i vicoli, ti carezza quando torni da un viaggio. É sempre qui!
Tra i mercatari (mercanti) fa giri immensi: “mMandane 5 a quella baracca lì, sta Gigino”… e ne tornano sette! Con gli interessi.
A fine giornata non sai nemmeno quanti ne hai presi, ma troverai sempre un’altra occasione per dire “Jammece a piglià o cafè”, perchè: ” É sempre un piacere!“
Antonio Caldarelli